La spigarola del Velebit (nome scientifico Melampyrum velebiticum Borbás, 1882) è una piccola pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Orobanchaceae dalle brattee variamente colorate.[1]
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Progetto:Forme di vita - implementazione Classificazione APG IV.
Il taxon oggetto di questa voce deve essere sottoposto a revisione tassonomica. |
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Classificazione APG IV | |
Dominio | Eukaryota |
Regno | Plantae |
(clade) | Angiosperme |
(clade) | Mesangiosperme |
(clade) | Eudicotiledoni |
(clade) | Eudicotiledoni centrali |
(clade) | Asteridi |
(clade) | Euasteridi I |
Ordine | Lamiales |
Famiglia | Orobanchaceae |
Tribù | Rhinantheae |
Classificazione Cronquist | |
Dominio | Eukaryota |
Regno | Plantae |
Sottoregno | Tracheobionta |
Superdivisione | Spermatophyta |
Divisione | Magnoliophyta |
Classe | Magnoliopsida |
Sottoclasse | Asteridae |
Ordine | Scrophulariales |
Famiglia | Scrophulariaceae |
Genere | Melampyrum |
Specie | M. velebiticum |
Nomenclatura binomiale | |
Melampyrum velebiticum Borbás, 1882 | |
Nomi comuni | |
Melampiro del Velebit | |
Il nome generico (melampyrum) deriva da due parole greche: "mélas" (= nero) e "pyrós" (= grano), un nome usato da Teofrasto (371 a.C. – Atene, 287 a.C.), un filosofo e botanico greco antico, discepolo di Aristotele, autore di due ampi trattati botanici, per una pianta infestante delle colture di grano.[2] L'epiteto specifico (velebiticum) deriva dal nome del Monte Velebit in Croazia luogo di uno dei primi ritrovamenti di questa specie.[3][4]
Il binomio scientifico della pianta di questa voce è stato proposto dal botanco ungherese Vincze von Borbás (1844-1905) nella pubblicazione "Magyar Tudományos Akadémia Értesitöje. Budapest -9"[5] del 1882.[1]
Queste piante possono arrivare fino ad una altezza di 20 – 40 cm (massimo 50 cm). La forma biologica è terofita scaposa (T scap), ossia in generale sono piante erbacee che differiscono dalle altre forme biologiche poiché, essendo annuali, superano la stagione avversa sotto forma di seme e sono munite di asse fiorale eretto e spesso privo di foglie.[6] Sono piante “emiparassite” : possono vivere sulle radici di altre piante per prelevare acqua e sali minerali, mentre sono capaci di svolgere la funzione clorofilliana (al contrario delle piante “parassite assolute”). Queste piante non anneriscono durante la disseccazione. Il colore è verde nella parte basale, mentre è screziato di blu-violetto presso l'infiorescenza dal quale risalta il giallo della parte apicale delle corolle dei fiori.[7][8][9][10][11]
Le radici sono tipo fittone.
La parte aerea del fusto è eretta e più o meno ramosa.
Le foglie lungo il caule sono disposte in modo opposto; sono patenti; la lamina ha una forma da lanceolato-lineare a lanceolata; sono sessili con base ottusa. Le foglie inferiori e quelle medie sono intere, mentre quelle superiori hanno generalmente 1 - 2 denti basali patenti. Dimensione delle foglie: larghezza 8 – 13 mm; lunghezza 40 – 60 mm.
L'infiorescenza è una spiga conica non troppo densa interrotta alla base con i fiori disposti tutti dallo stesso lato e con brattee simili a foglie, più o meno violacee. Le brattee sono lunghe 10 – 15 mm con lamina intera o (quelle superiori) con 1 - 3 denti basali patenti lunghi 1 – 3 mm.
I fiori sono ermafroditi, zigomorfi e tetraciclici (con i quattro verticilli fondamentali delle Angiosperme: calice – corolla – androceo – gineceo). Lunghezza del fiore: 18 – 22 mm.
Il frutto è del tipo a capsula deiscente a quattro semi; la forma è obovato-compressa bivalve.
Queste piante sono emiparassite, ossia in parte producono clorofilla e sono capaci di assorbire in modo autonomo i minerali dal terreno, ma hanno anche la capacità di utilizzare le sostanze prodotte dalle piante a loro vicine (funzione parassitaria). I meccanismo con il quale assorbono le sostanze di altre piante è basato su piccoli austori posti al livello radicale. La pianta ospite può accettare di buon grado questo insediamento (come la specie Festuca ovina) oppure può opporsi con secrezioni di sostanze tossiche. Se l'infestazione nelle colture di cereali supera un certo livello, la farina prodotta è più scura, con un particolare odore e dal sapore più acre e disgustoso dovuto al glucoside velenoso "rinantina".[9]
Dal punto di vista fitosociologico la specie di questa voce appartiene alla seguente comunità vegetale:[13]
La famiglia di appartenenza della specie (Orobanchaceae) comprende soprattutto piante erbacee perenni e annuali semiparassite (ossia contengono ancora clorofilla a parte qualche genere completamente parassita) con uno o più austori connessi alle radici ospiti. È una famiglia abbastanza numerosa con circa 60 - 90 generi e oltre 1700 - 2000 specie (il numero dei generi e delle specie dipende dai vari metodi di classificazione[14][15]) distribuiti in tutti i continenti. Il genere Melampyrum è distribuito in Europa, India, Giappone e Nord America; le sue specie preferiscono climi per lo più temperati delle regioni extratropicali. Comprende circa 30 - 40 specie di cui una dozzina sono presenti nella flora spontanea italiana.[9]
La classificazione tassonomica del Melampyrum velebiticum è in via di definizione in quanto fino a poco tempo fa il suo genere apparteneva alla famiglia delle Scrophulariaceae (secondo la classificazione ormai classica di Cronquist), mentre ora con i nuovi sistemi di classificazione filogenetica (classificazione APG) è stata assegnata alla famiglia delle Orobanchaceae e tribù Rhinantheae.[16].
Il Melampyrum velebiticum fa parte del gruppo M. nemorosum circoscritto dai seguenti caratteri:[11]
A questo gruppo appartengono sei specie (relativamente alla flora spontanea italiana):
Le specie del genere Melampyrum sono soggette al fenomeno del "polimorfismo stagionale". In particolare a quote basse dapprima si ha la fioritura "estivale" e quindi quella "autunnale". A quote più alte (alta montagna) a causa del più breve periodo di fioritura si ha una sola forma intermedia chiamata "monomorfa". Per questa specie sono descritte quattro forme stagionali:[11]
Questa entità ha avuto nel tempo diverse nomenclature. L'elenco seguente indica alcuni tra i sinonimi più frequenti:[1]
Le specie Melampyrum della flora spontanea italiana si dividono in cinque "gruppi di specie" principali non sempre di facile distinzione:[11]
Il disegno (sotto) mostra i caratteri del calice e delle brattee di questi cinque gruppi.
Nel dettaglio il M. velebiticum si distingue dal M. nemorosum oltre che per la pubescenza (vedi sopra) anche per la lamina fogliare (in velebiticum sono più lanceolate che lineari e con base allargata) e per la dentatura delle brattee (in velebiticum la dentatura non supera la metà della lunghezza della brattea).[13] Un'altra specie simile è Melampyrum subalpinum (Juratzka) Kerner che comunque si distingue per i lunghi peli pluricellulari sui nervi e sui bordi del calice. Quest'ultima specie sembra non sia presente nella flora spontanea italiana.[11]
Il melampiro del Velebit in altre lingue è chiamato nei seguenti modi:
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